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Progetto
Ovidio - database
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autore
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brano
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Cicerone
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I doveri, II, 25
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originale
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[25] Quid enim censemus superiorem illum Dionysium quo cruciatu timoris angi solitum, qui cultros metuens tonsorios candente carbone sibi adurebat capillum? quid Alexandrum Pheraeum quo animo vixisse arbitramur? qui, ut scriptum legimus, cum uxorem Theben admodum diligeret, tamen ad eam ex epulis in cubiculum veniens barbarum, et eum quidem, ut scriptum est, conpunctum notis Thraeciis destricto gladio iubebat anteire praemittebatque de stipatoribus suis qui scrutarentur arculas muliebres et, ne quod in vestimentis telum occultaretur, exquirerent. O miserum, qui fideliorem et barbarum et stigmatiam putaret, quam coniugem. Nec eum fefellit; ab ea est enim ipsa propter pelicatus suspicionem interfectus. Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna.
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traduzione
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25. E che? Possiamo noi comprendere da qual tormentoso timore veniva di solito assalito il famoso Dionigi il Vecchio, che temendo il rasoio del barbiere si bruciava da s? la barba con un tizzone ardente? E che? Con quale animo pensiamo che sia vissuto Alessandro di Fere? Costui - come si legge - pur amando molto la propria moglie, Tebe, tuttavia quando dal banchetto si recava nella sua stanza ordinava ad un barbaro, addirittura tatuato - come ? scritto al modo dei Traci, di andare avanti con la spad? sguainata e si faceva precedere da alcuni sgherri, incaricati di perquisire gli scrigni della donna e di accertarsi che non fosse nascosta un' arma tra le vesti. 0 infelice, che riteneva pi? fedele un barbaro tatuato che la propria moglie! E non si sbagli?: fu ucciso per mano della moglie, per sospetto d'infedelt?. Non c'?, in verit?, alcuna forza di potere tanto grande che possa resistere a lungo sotto l'oppressione del timore.
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